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AFORISMI E RACCONTI ORIENTALI

  1. “Fra gli alberi il ciliegio, fra gli uomini il samurai” (Libera traduzione di hana wa satura gi hito wa bushi tratto dal libro “Bushido. L’anima del Giappone” Ediz. Luni 2003)

  2. “Sii felice anche senza motivo e dai il meglio di ciò che hai” (Indicazioni del Bubishi di Okinawa)

  3. “Fai della rabbia il tuo nemico” (Indicazioni del Bubishi di Okinawa)

  4. “Un vascello vuoto è quello che fa più rumore” (Indicazioni del Bubishi di Okinawa)

  5. “E’ una umile virtù possedere abilità e benessere senza esserne influenzati” (Indicazioni del Bubishi di Okinawa)

  6. “Ciò che compiamo in vita riecheggia nell’eternità”(Frase fatta pronunciare al protagonista del celeberrimo film “Il Gladiatore” in realtà parte degli insegnamenti del padre di Yamamoto Tsunetomo autore dell’Hagakure – Testo del 1600 d.C. Ediz. Mondadori 2001)

  7. “Quando si legge un testo a voce alta, bisogna farla salire dal ventre.Quando si legge solo con la bocca e con la gola, ci si stanca presto. Questo è un insegnamento di Nakamo Shikibu. (Hagakure Op. citata)

  8. “Nei giorni felici, bisogna guardarsi dalla superbia e dalla smodatezza. Se una persona non è prudente quando la situazione è normale, poi non sarà in grado di recuperare. Chi si esalta in tempi buoni vacillerà in quelli avversi” (Hagakure Op. citata)

  9. “Un uomo sosteneva: “Io conosco la forma della ragione e dell’errore”. Quando qualcuno gli chiedeva chiarimenti al riguardi, egli rispondeva: “La ragione ha quattro angoli e non si muove neppure in una situazione estrema. L’errore è rotondo e, non distinguendo tra bene e male, tra giusto e sbagliato, si lascia rotolare ovunque da una parte all’altra”. (Hagakure Op. citata)

  10. “Non importa se una persona occupa una posizione sociale elevata o infima. Se non ha mai messo la sua vita in gioco almeno una volta, offre occasione di biasimo”. (Nabeshima Naoshige, “Iscrizioni Murali”)

  11. “Nel cielo e nella terra, non c’è alcuna fessura per nascondersi, lieto di sapere che l’uomo è vuoto e anche le cose lo sono, lucente è la lunga spada dei mongoli, sembra il lampo d’un fulmine che recida la brezza di primavera” (Bukko, maestro Zen). Composto prima della disfatta dei Mongoli, che avrebbero senza problemi invaso il Giappone, ad opera di un tifone. Il termine kamikaze - letteralmente vento degli Dei o vento degli spiriti  - fu coniato in questa occasione e ripreso nelle note vicende della 2^ Guerra Mondiale. Questo terribile evento atmosferico fu predetto, durante il secondo tentativo di invasione mongola, dal monaco buddista Nichiren. Questi, a quel tempo in polemica con le altre scuole del Dharma, fondò una setta il cui mantra “Namu myoho renge kyo, namu myoho renge kyo” è molto noto anche oggi in occidente).

  12. “Attraverso l’ordine, affrontare il disordine; attraverso il silenzio affrontare il clamore – è questo il metodo per controllare la prontezza mentale” (Sun tzu L’arte della Guerra)

  13. Un uomo forte non è violento, ma aiuta i più deboli. Un uomo interiormente debole è litigioso, provoca e mette gli altri a disagio, sottomettendoli per poterli comandare. Ma quando incontra uno più forte diventa una nullità.(M° Chang Dsu Yao. Tratto da “Io e il Maestro” di Giuseppe Ghezzi)

  14. “In movimento sii come un’onda del mare, quando sei fermo trasformati in una montagna. Sali e salta come una scimmia, piomba giù come un uccello. In equilibrio su una gamba sii come una gru, ma rimani stabile come un pino. Gira come una ruota, muoviti sinuosamente e sii flessibile come un arco. Devi essere leggero come una foglia, ma anche pesante come il ferro, lento come un falco che plana e veloce come il vento”. (M° Chang Dsu Yao Op. citata)

  15. “Tutti gli aspetti della realtà visibile equivalgono al vuoto, il vuoto è l’origine di tutta la realtà”(Massima Zen)

  16. “Un giorno il maestro Joshu annunciò che il giovane monaco Kyogen aveva raggiunto l’illuminazione, Impressionati da quella notizia, diversi suoi confratelli vollero interrogarlo in proposito. “Abbiamo sentito che hai raggiunto l’illuminazione. E’ vero?”, gli chiesero gli altri discepoli del maestro. “E’ così”, rispose Kyogen. “Allora raccontaci”, fece un suo amico, “come ti senti adesso?”. Miserabile, come sempre”, rispose l’illuminato Kyogen.” (anonimo)

  17. “La legge della vita. L’uomo nasce duttile e fragile. Alla sua morte è duro e rigido. Le piante sono tenere e piene di linfa. Alla loro morte avvizziscono e si seccano. Quindi ciò che è rigido e indeformabile è discepolo della morte. Ciò che è morbido e modellabile è discepolo della vita. Ecco perché un esercito privo di flessibilità non potrà mai vincere una battaglia. Un albero che non si piega viene facilmente spezzato. Chi è forte e rigido soccomberà. Mentre chi è tenero e fragile avrà il sopravvento.” (Lao Tzu)

  18. “Un maestro zen che era uscito a fare una passeggiata con uno dei suoi studenti gli indicò una volpe che stava cacciando un coniglio.”Secondo una antica favola alla fine il coniglio riuscirà a sfuggire alla volpe”, disse il maestro. “No”, rispose il discepolo “La volpe è più veloce”. “Ma il coniglio riuscirà a farla franca” insisté il maestro.”Perché ne siete così certo?” chiese il discepolo. “Perché la volpe sta correndo per procurarsi un pasto, ma il coniglio sta correndo per salvare la pelle”, rispose il maestro.

  19. “La mente di un uomo perfetto è simile ad uno specchio. Non si afferra a nulla. Non si aspetta nulla. Riflette ma non trattiene. Ecco perché l’uomo perfetto può agire senza sforzarsi”. Chuang Tzu

  20. “La mente non dovrebbe essere da nessuna parte in particolare”. Takuan Soho

  21. “Per chi è privo di controllo non c’è saggezza, né c’è il potere della concentrazione. Per chi è privo di concentrazione non c’è pace. Senza pace, come potrà mai trovare la felicità?”.

  22. “La vera dimensione del maestro è l’eterno allievo” (Alberto Olivero)

  23. “Non è l’arte che fa l’uomo, ma è l’uomo che fa l’arte” (Con questa frase il M° Antonino Certa intende mettere in guardia tutti coloro che si sottomettono ad una dura disciplina marziale, ma vale per tutte le arti, prendendo come punti di riferimento delle persone, attitudini o archetipi spesso molto lontani dalla loro struttura fisica, psicologica e mentale. Invita quindi a partire da se stessi ben considerando i nostri pregi e difetti come unica base reale di confronto continuo con l’arte che stiamo praticando)

  24. “Nascita e morte sono un grave evento; come è effimera la vita! Bisogna rimpiangere ogni minuto; il tempo non aspetta nessuno”(Alan W.Watts “Lo ZEN” ed. Bompiani)

  25. “La mente ha il proprio luogo e da sola può fare un cielo dell’inferno, un inferno del cielo” (Alan W.Watts Op. Citata)

  26. “L’Arte è qualcosa che si trova nell’esile margine tra reale e irreale… Laddove rassomigli all’originale, dovrebbe altresì possedere una stilizzazione” (Il famoso drammaturgo di teatro Kabuki, appartenente al ceto dei samurai, Chikamatsu Monzaemon – 1653-1724)

  27. “Prima della sconfitta si ha la manifestazione dell’orgoglio” (Alberto Olivero)

  28. “Ricorda sempre che vita e morte avrai sotto i tuoi occhi. Forse vorrai fuggire ma non sarà concesso”. (Morirei Ueshiba “L’essenza dell’Aikido” ediz. Mediterranee)

 

RACCONTO 1
 
L’ Artista AFFRONTARE IL FOGLIO BIANCO E’ IL TERRORE DELL’ARTISTA.

Quando un artista crea assomiglia ad uno sciamano. L’ispirazione gli giunge come un dono. I seguaci del Tao fanno lo stesso. La loro consapevolezza del Tao non è nulla di chiaramente formulato, né qualcosa che essi possiedono: è il Tao ad andare da loro come un dono. Per questo le arti e il Tao sono così saldamente alleati: perché l’atto del ricevere e dell’esprimere è il medesimo.
Proprio come un artista teme l’incapacità di fare arte, così il seguace ha il terrore di non sentire più il Tao.
Spesso le circostanze ci impongono di creare: come atleti sul campo di gara, come oratori di fronte ad un pubblico, come musicisti sul palcoscenico, come cuochi ai fornelli o genitori alle prese con i figli. In che modo mantenere vivo il flusso? Alcuni cercano di farlo conducendo una vita ordinata e regolare, altri mantenendosi costantemente attivi. Ognuno di noi è diverso, dunque non esiste nulla di assolutamente giusto o sbagliato. L’unica cosa che conta è sentire il Tao e tenere questa percezione in vita il più a lungo possibile. Se riusciamo a scoprire ciò che vi è di speciale e nascosto in noi, e a imparare ad esprimerlo, allora conosceremo il Tao. (“Il Tao per un anno” Deng Ming-Dao)


RACCONTO 2
Il cavallo , la principessa e il trono.

Verso la fine della dinastia Chin, Mo Tun, affermò la propria supremazia al vertice del potere nella sua regione. Gli Hu dell’est, regione confinante, erano forti ed inviarono alcuni ambasciatori per parlamentare: “Desideriamo il cavallo dei cinquecento chilometri che possedete”. Mo Tun consultò i propri consiglieri, che esclamarono: “ Il cavallo dei cinquecento chilometri! Una delle cose più preziose del Paese! Non può cederlo!” Mo Tun rispose: “Perché negare un cavallo ad un vicino?”.
Gli Hu non tardarono ad inviare nuovi delegati che dissero: “Desideriamo una delle vostre principesse”. Mo Tun si rivolse ai suoi Ministri, che collerici dissero:”Gli Hu sono perversi! Adesso chiedono una principessa! Ti imploriamo, attaccali!”. Mo Tun disse: “Come si può negare una moglie ad un vicino?”. E diede loro una principessa.
Poco dopo, gli Hu tornarono e dissero: “Possedete mille chilometri quadrati di territorio che non utilizzate, lo vogliamo!”. Mo Tun tornò a sentire i suoi consiglieri. Alcuni sostenevano che fosse razionale cedere quelle terre, altri no. Mo Tun si infuriò e disse: “Il territorio è il fondamento dello Stato. Come si può cederlo?”. Tutti quelli che avevano suggerito la resa furono decapitati. Mo Tun saltò sul suo cavallo, ordinò la decapitazione di tutti quelli che non lo avrebbero seguito e lanciò un attacco a sorpresa. Gli Hu dell’est avevano sottovalutato Mo Tun e quindi non erano preparati alla guerra. Furono subito annientati. Mo Tun si diresse quindi a Ovest  e poi a Sud riconquistando gli antichi territori che gli aveva strappato il Generale Meng Tien.
(Commentario a “L’arte della Guerra” di Sun Tsu – J.M.Sanchez Barrio)

RACCONTO 3
Morte di Takuan Soho

Takuan Soho fu monaco Zen, ma fu anche calligrafo, pittore, poeta, maestro dell’arte del giardinaggio e del the. I suoi scritti possono considerarsi prodigiosi (la collezione completa dei suoi lavori consta di sei volumi), e sono fonte di ispirazione e di suggerimenti per il popolo giapponese di oggi, così come lo sono stati dal momento in cui sono stati redatti, quasi quattro secoli or sono.
Consigliere e confidente per il ricco e per il povero, Takuan sembra essersi mosso con libertà attraverso le diverse classi sociali; istruì tanto lo Shogun quanto l’Imperatore e, come narra la leggenda, fu amico e maestro dell’artista e maestro di spada Miyamoto Musashi. Non parve mai essere sensibile alla fama e alla popolarità e, prossimo alla morte, istruì in questo modo i suoi discepoli:”Seppellite il mio corpo sulla montagna dietro al tempio, copritelo con detriti e tornate alle vostre dimore. Non leggete i sutra, non officiate cerimonie. Non accettate alcun dono né dal monaco né dal profano. Lasciate che i monaci indossino le solite vesti e consumino i loro pasti e procedete come in un giorno qualsiasi”. Nel momento culminante, prima della morte, scrisse l’ideogramma cinese yume (sogno), ripose il pennello, e morì. (Introduzione a “Lo Zen e l’arte della spada” ediz. Mondadori)


RACCONTO 4
Il Duello del Maestro di Cerimonia del Tè

Un giorno, a Edo, un pacifico maestro del tè (che non aveva il rango di samurai, sebbene il protocollo gli imponesse di vestirsi come tale) fece un incontro che aveva sempre temuto da quando aveva lasciato il castello: si imbatte in un ronin(un samurai senza padrone) che lo sfidò a duello: Il maestro del tè spiegò chi era, ma il ronin, nella speranza di estorcere danaro alla sua vittima, continuò a minacciarlo. Pagare per venire lasciato in pace sarebbe stata un’azione disonorevole per il maestro del tè, per il suo signore e per il suo clan. L’unica alternativa era accettare la sfida. Ormai rassegnato alla morte, il maestro del tè aveva l’unico desiderio di morire in un modo degno di un samurai. Perciò chiese all’avversario il permesso di rinviare lo scontro e si precipitò in una scuola di scherma che aveva visto nelle vicinanze, sperando di ricevere almeno le informazioni fondamentali, cioè di imparare a morire onorevolmente di spada. Senza lettere di presentazione di solito era difficile farsi ricevere dal maestro di una scuola, ma in questo caso, i portinai si accorsero del turbamento del maestro del tè, e rimasero colpiti dall’enfasi con cui chiedeva di entrare. Egli venne finalmente condotto dal maestro che, dopo aver ascoltato attentamente la storia, pregò il visitatore di servire un po’ di tè prima di imparare l’arte di morire. Il maestro di scherma, vedendolo compiere la cerimonia del tè con totale concentrazione e serenità mentale, a un certo punto si batté la mano sul ginocchio, in segno di cordiale approvazione ed esclamò: “Ecco! Non c’è bisogno che tu impari l’arte della morte! Lo stato d’animo in cui ora ti trovi è sufficiente per permetterti di affrontare qualunque spadaccino. Quando vedrai il tuo ronin, comportati così: prima pensa che ti accingi a servire il tè ad un ospite. Salutalo cortesemente, scusandoti per il ritardo, e digli che ora sei pronto per lo scontro. Togliti il haori, la sopravveste, piegalo con cura, e poi posa su di esso il ventaglio, come quando stai lavorando. Poi cingiti la testa con il tenugui, la fascia, rimboccati le maniche e legale con una corda, e raccogli la tua hakama. Sguaina la spada, levala sopra la testa, pronto ad abbattere l’avversario e , chiudendo gli occhi, raccogli i tuoi pensieri per il combattimento. Quando lo udrai lanciare un urlo, colpiscilo con la tua spada. Probabilmente l’incontro si concluderà con la morte di entrambi”. Ringraziando profusamente lo schermitore, il maestro del tè ritornò dal ronin, si preparò ed attese. Il ronin vide “una persona completamente diversa” e “chiese perdono al maestro del tè per la sua scortese richiesta, affrettandosi ad andarsene” (Suzuki Daisetz T. “Zen and Japanese Culture” NewYork: Pantheon Book,1960)

 

RACCONTO 5
Una bomba a tempo

Un esperto di boxe cinese si stabilì in un piccolo villaggio isolato. Dopo poco tempo cominciò a sentirsi davvero a suo agio dato che i contadini avevano paura di lui. In breve, divenne il signore di quei luoghi. Ciò che più apprezzava era il fatto che nessuno osava affrontarlo, fino al giorno in cui… un vecchietto con la barba bianca nell’attraversare un ponte non gli cedette il passo continuando il suo cammino, proprio davanti a lui.
Fedele alla sua terribile immagine, l’esperto lottatore tentò di spingere il vecchio, ma il suo colpo andò a vuoto, perché questi evito il gesto. Furioso, si lanciò sopra l’anziano e iniziò a colpirlo. Durante la lotta, il vecchio provò a parare i colpi, riuscendo anche a toccare leggermente il petto del bruto, ma rovinò presto al suolo. Soddisfatto per la lezione impartita, il lottatore abbandonò sul ponte il corpo inanimato del vecchio impertinente che aveva osato affrontarlo. Quando il bruto si allontanò, il vecchio aprì un occhio, poi l’altro, si sollevò, si tolse la polvere e se ne andò tranquillamente. I giorni passavano e il lottatore si sentiva sempre meno in forma. Il suo corpo si debilitava, aveva problemi di respirazione e di digestione; i dolori alla testa erano sempre più frequenti. Un giorno, scosso da forti brividi di febbre, si coricò privo di forze per muoversi. Riusciva a malapena a parlare. Dopo aver meditato lungamente sulle ragioni del proprio stato, arrivò a quella che sembrava essere la spiegazione più plausibile: il leggero colpo infertogli dal vecchio, lo aveva colpito senza dubbio in un punto vitale ed ora se ne manifestavano gli effetti. Comprendendo finalmente la lezione che il vecchio gli aveva dato, capì quanto ingannevoli erano le apparenze e quanto aveva vissuto, fino ad allora, nell’illusione della sua forza. Mandò a cercare il vecchio per chiedergli perdono per la sua inqualificabile condotta e per ringraziarlo per avergli aperto gli occhi.
Il vecchio viveva in una cappella vicina al villaggio e non tardò ad arrivare. Decise di curarlo egli stesso, impressionato dal ravvedimento sincero del malato che supplicò umilmente l’anziano d’accettarlo come discepolo, animato com’era, finalmente, da una vera necessità di conoscenza.
Da quel momento si fermò alla cappella, fino alla morte del maestro e quando tornò al villaggio, la sua presenza non incuteva più timore, ma un benevolo rispetto.(Da un Commentario a “L’arte della Guerra” di Sun Tsu – J.M.Sanchez Barrio)

  


I 5 RACCONTI LUNGHI

  RACCONTO 1

 Dove si pone la mente

Si dice che:

Se si pone la mente nell’azione del corpo dell’avversario, la mente ne sarà soggiogata.

Se si pone la mente nella spada dell’avversario, la mente ne sarà soggiogata.

Se si pone la mente nel pensiero di quali saranno le intenzioni dell’avversario che sta per colpirci, la mente sarà soggiogata.

Se si pone la mente nella propria spada, la mente ne sarà soggiogata.

Se si pone la mente nella propria intenzione di non essere colpiti, la mente  ne sarà soggiogata.

Se si pone la mente nella posizione del corpo dell’avversario, la mente ne sarà soggiogata.

La Mente Corretta è quella che non si ferma in un luogo. E’ la mente che si estende per tutto il corpo e il sé.

La mente confusa è quella che, ripensando a qualcosa, si congela in un luogo.

Quando la Mente Corretta si congela in un luogo e lì si ferma, diviene quella che è chiamata Mente Confusa. Quando si smarrisce la Mente Corretta, viene meno la funzionalità. Per questo è importante non perderla.

Per il fatto che non si concentra in un solo luogo, la Mente Corretta è simile all’acqua. La Mente Confusa è come il ghiaccio, e il ghiaccio non può lavare né le mani né il volto. Quando il ghiaccio si è sciolto, diviene acqua che scorre ovunque e può lavare le mani, i piedi o qualsiasi cosa.

Se la mente si congela in un luogo e si blocca a causa di una cosa, è come l’acqua ghiacciata e non può essere usata liberamente: il ghiaccio non può lavare né le mani né i piedi. Quando la mente è libera è simile all’acqua, si estende attraverso il corpo e può andare ovunque uno voglia mandarla.

Questa è la mente corretta. (“Lo Zen e l’arte della spada” Takuan Soho ediz Mondadori)

Il grande maestro di spada Yagyu Tajima no Kami (1527-1606) illustrò questo concetto con estrema chiarezza:

“L’erudizione e la conoscenza sono destinate a essere – dimenticate - , ed è solo quando ci si è resi conto di questo che è possibile sentirsi perfettamente a proprio agio… Per quanto possa essere buona l’educazione di un uomo all’arte della spada (Kenjutsu), lo schermidore non potrà mai dominare completamente la propria conoscenza tecnica, a meno che non vengano rimossi tutti gli impedimenti di natura fisica ed egli sia in grado di mantenere la mente in uno stato di vuoto (Mu), purificato persino da qualunque tecnica abbia acquisito. Il corpo intero insieme con i quattro arti sarà allora in grado di manifestare per la prima volta, e in tutta la sua portata, l’arte acquisita con l’addestramento di molti anni.  Il corpo si muoverà automaticamente, senza alcuno sforzo cosciente da parte dello stesso schermidore… L’allenamento è tutto lì, ma la mente (Shin) è completamente inconsapevole. La mente non sa dove si trovi. Quando ciò verrà compreso, gettata al vento tutta la preparazione, con la mente perfettamente ignara della propria attività, con il sé ormai svanito, l’arte della spada raggiungerà la perfezione, e chi la possiede è denominato meijin. Il meijin è uno specialista la cui abilità va ben oltre la perizia fisica. La sua essenza è di natura spirituale. L’autoperferzione ne è la caratteristica precipua; egli ha superato i cosiddetti livelli di addestramento “dell’azione e della ricerca”. Il meijin è un esempio vivente di vita regolata, disciplinata. Egli continua a pretendere molto da se stesso e non tralascia mai la preparazione quotidiana.

Il meijin si distingue per l’aura di serenità che lo circonda. Egli possiede il fudoshin o mente imperturbabile, uno stato mentale che gli consente di affrontare qualunque situazione con padronanza di sé. Le circostanze che nell’uomo ordinario produrrebbero livelli variabili di emozioni violente – come un rumore assordante ed inatteso – non riescono a penetrare la predominante calma esteriore del maestro. Ogni azione del meijin riflette il dominio della mente sul corpo nell’efficienza controllata dei suoi movimenti. Egli possiede un corpo agile che, quando si allena, muove in modo tipicamente leggero e accurato, e i suoi movimenti si caratterizzano per “l’accidentalità”: le azioni che compie, infatti, sembra che si verifichino per caso. Tale qualità non può essere acquisita tramite analisi, grazie ad una magistrale imitazione o per mezzo di un atteggiamento di convenienza artificiale; essa è dovuta interamente al funzionamento spontaneo dell’Io. L’elevato livello di padronanza della tecnica e del sé armonizza la mente del meijin con una sensibilità tale, che il corpo percepisce anche la minima esigenza di azione volta ad evitare il pericolo. E’ ancora questo stato d’animo che consente al meijin di levarsi al di sopra del mero sé in una condizione di altruismo o di “assenza dell’Io” (rimozione dell’egoismo). Di conseguenza, il meijin è sempre un uomo umile le cui buone maniere e la cui cortesia gli conferiscono grande dignità. Egli è la testimonianza del valore dell’impegno proficuo dell’uomo nell’affrontare le asperità della disciplina volontariamente imposta.

Per il meijin, la disciplina protratta culmina in un genere singolare di forza spirituale, difficilmente raggiungibile. La prestazione di un meijin può essere paragonata alla fragranza di un fiore. (da “Il Budo Classico” Vol 2 Donn F. Draeger ediz Mediterranee)


 

RACCONTO 2

Il karate senza armi del Maestro Matsumura

La storia ha inizio diversi decenni fa, a Naha, in Giappone, nel negozietto di un cesellatore che era anche il locale campione di karate. Quell’uomo era un vero gigante: le corte maniche del kimono che indossava contenevano a fatica i suoi muscoli possenti. Avendo appena passato i quaranta, era nel pieno dell’età adulta. Un giorno Matsumura entrò nel negozio del cesellatore. Sebbene il suo aspetto non fosse altrettanto imponente come quello del cesellatore, Matsumura, che aveva poco più di trent’anni, era anch’egli impressionante, alto, con penetranti occhi neri. Prese a descrivere con tono molto pacato il disegno che voleva far incidere sul fornello di ottone della sua pipa. Il cesellatore lo squadrò, poi disse:”Le chiedo scusa signore, ma lei non è forse Matsumura, il maestro di karate?”.

“Sì”, rispose Matsumura, “perché?”.

“Si dice che lei sia il miglior insegnante di karate del paese. Ha persino insegnato al capo clan, non è vero?”

“Lo facevo”, ammise Matsumura con tono amareggiato,”ma ora non più. A dire il vero sono stanco del karate”.

“Non capisco”, fece il cesellatore.”Tutti la descrivono come il miglior maestro vivente. Se lei non è più il maestro del capo clan, chi potrà mai avervi sostituito?”. Notando l’espressione avvilita che si era dipinta sul volto di Matsumura, il cesellatore aggiunse: “Dev’essere successo qualcosa di terribile”.

“Ha ragione”, disse Matsumura. “Il capo clan era uno studente poco attento, con una tecnica rozza, abituato a vincere in virtù della posizione, anziché per l’abilità. Un giorno, dovendo insegnargli qualcosa di cui aveva bisogno, gli feci notare la sua debolezza e lo sfidai ad attaccarmi con tutte le forze. La sua tecnica di apertura fu un doppio calcio, una pessima scelta dovendo affrontare un avversario esperto come me. Finì per terra come un sacco di patate, a cinque metri di distanza.

“ Quando infine riuscì a rimettersi in piedi, mi ordinò di togliermi di mezzo e non farmi più vedere fino a nuovo ordine. Forse sarebbe stato meglio se non avessi mai imparato il karate neppure io”.

“Sciocchezze”, disse il cesellatore. “In ogni caso, visto che lei non ha più discepoli, perché non diventa il mio insegnante?”.

“No”, disse Matsumura, “come le ho detto ho abbandonato il karate e comunque perché mai un uomo della sua esperienza dovrebbe poter imparare qualcosa da me?”

“Francamente, sono curioso di vedere il suo metodo d’insegnamento”, rispose il cesellatore.

“Ho smesso d’insegnare il karate”, tuonò Matsumura, irritato dalla presunzione del cesellatore, che osava proporre all’ex insegnante del capo clan di dedicarsi a un allievo di livello sociale ben più basso.

Lo scoppio d’ira di Matsumura fece cambiare bruscamente atteggiamento al cesellatore: “Bene, visto che rifiuta di insegnarmi, forse mi rifiuterà anche una sfida?”

Matsumura era incredulo: “Davvero? Vuole proprio sfidarmi?”.

“Esatto”, rispose il cesellatore. “In una sfida non ci sono distinzioni di classe, e poiché lei non è più insegnante del capo clan non ha bisogno del suo permesso per combattere contro di me”. Con tono e atteggiamento insolente proseguì: “E posso assicurare che saprò difendermi molto meglio di lui”.

“Non crede di esagerare?”, chiese Matsumura. “Qui non si tratta di rischiare di farsi male, si tratta di vita o di morte. E’ davvero pronto a morire?”

“Nessun problema”, rispose il cesellatore senza neppure pensarci.

“In questo caso sarò felice di impegnarmi in tal senso, ma mi permetta ricordarle un vecchio modo di dire: quando due tigri lottano tra loro, una verrà sicuramente ferita, l’altra morirà”, fece Matsumura. Poi , visto che le sue parole non avevano sortito alcun effetto sul cesellatore concluse:”Lascio a lei decidere l’ora e il luogo del nostro combattimento”. Fu così deciso  che si sarebbero incontrati alle cinque del mattino seguente, nel cortile di fronte al Palazzo Tama. I due si ritrovarono all’ora prestabilita. Senza troppi preliminari, si sistemarono a qualche metro di distanza uno dall’altro. Il cesellatore fece la prima mossa. Colmò metà della distanza che li separava, portò avanti il pugno sinistro nella posizione gedan e sistemò il pugno destro sull’anca destra, pronto ad attaccare. Matsumura lo affrontava tranquillamente, in posizione naturale, col mento quasi appoggiato alla spalla sinistra. Sembrava una posizione assolutamente inadatta a qualsiasi genere di difesa, cosicché il cesellatore fece per proseguire il suo attacco. Matsumura spalancò gli occhi e guardò dritto negli occhi dell’avversario. Non aveva mosso neppure un muscolo, ciò nondimeno il cesellatore arretrò bruscamente, respinto da una forza equivalente all’esplosione di un lampo. La fronte del cesellatore era imperlata di sudore, sudore che gli gocciolava anche da sotto le braccia. In preda all’affanno, sedette su un sasso lì vicino. Matsumura fece altrettanto, con fare distaccato. Dopo qualche istante, il cesellatore urlò: “Forza, sta per sorgere il sole. Facciamola finita!”.

I due si alzarono e Matsumura adottò la stessa posizione che aveva assunto in precedenza. Il cesellatore nuovamente determinato ad attaccarlo, fece qualche passo in direzione dell’avversario, ma venne nuovamente respinto da una forza che, come sostenne in seguito, sembrava provenire unicamente dallo sguardo di Matsumura. Il cesellatore era ormai consapevole dell’imminente sconfitta, ma era comunque determinato a morire da uomo, cosicché proruppe nel suo poderoso kiai!un urlo o meglio un ruggito che in precedenza aveva terrorizzato avversari di minore peso. Matsumura restò immobile e il cesellatore, sconfitto, dovette nuovamente ritirarsi.

“Perché non mi attacchi?, gli chiese Matsumura.

“Non capisco”, rispose il cesellatore. “Non avevo mai perso prima d’ora, tuttavia preferisco la morte a questa umiliazione, Ti avverto, ora sferrerò un attacco sutemi (intendeva dire che avrebbe combattuto fino alla morte).

“Bene!”, fece Matsumura sorridendo. “Ti aspetto con piacere”. Il cesellatore si lanciò improvvisamente all’attacco, utilizzando tutte le forze e la tecnica di cui poteva disporre, ma dalla gola di Matsumura proruppe un urlo poderoso, la cui eco attraversò tutto il cimitero e rimbalzo sulle colline più distanti. Proprio com’ era successo in precedenza con il lampo dagli occhi di Matsumura, che aveva paralizzato l’avversario, anche in questo caso il suo spaventoso ruggito finì per immobilizzare il cesellatore.

“Abbandono”, disse piangendo il cesellatore. “Sono stato uno sciocco a volerti sfidare. Non c’è paragone tra le tue qualità e le mie”.

“Non è vero”. Rispose Matsumura con tono gentile.”Hai un grande spirito combattivo e penso di poter dire che la tua tecnica sia molto buona. Se avessimo davvero lottato, probabilmente ne sarei uscito sconfitto”.

“Tu mi lusinghi”, rispose il cesellatore. “La verità è che al solo guardarti negli occhi mi sono sentito assolutamente impotente, e quale che fosse il mio spirito combattivo, l’ho smarrito irrimediabilmente”.

“Forse”, rispose Matsumura con lo stesso tono pacato. “Ma questo è dovuto alla differenza tra noi. Tu eri determinato a vincere, mentre io ero soltanto determinato a morire se avessi perso.

“Ascolta”, aggiunse Matsumura, “ieri quando sono entrato nel tuo negozio mi sentivo infelice perché ero stato rimproverato dal capo clan. Quando mi hai sfidato mi sono preoccupato, ma dopo aver deciso di combattere tutte le mie preoccupazioni sono svanite. Ho capito che mi ero lasciato ossessionare da questioni che in fondo erano di poco conto: raffinare la tecnica, insegnare nel miglior modo possibile, adulare il capo clan. Mi ero dedicato unicamente al mantenimento della mia posizione. Oggi sono un uomo più saggio di ieri. Sono un essere umano e un essere umano è una creatura vulnerabile, che non potrà mai essere perfetta. Dopo la morte tutti noi torniamo agli elementi: la terra, l’acqua, il fuoco, il vento e lo spirito. La materia è vuota. Ogni cosa è vanità. Siamo come i fili d’erba o gli alberi della foresta, creature dell’universo, dello spirito dell’universo, e lo spirito dell’universo non è né vita né morte. La vanità è l’unico ostacolo all’esistenza”. Dopo aver detto ciò Matsumura si fece silenzioso. Anche il cesellatore era ammutolito, intento a meditare sull’irripetibile lezione di karate che aveva appena ricevuto. Un maestro lo aveva sconfitto senza eseguire neppure un colpo. Per ciò che riguarda Matsumura, ben presto venne reintegrato nella sua posizione di istruttore personale del capo clan. (Storia vera tratta da “Karate Do: Il mio stile di vita” Gichin Funakoshi – il termine karate è stato coniato da Funakoshi, nella storia è usato per favorirne la comprensione)


 

RACCONTO 3

Il segreto del Bonzo

Un bonzo cinese, dopo aver attraversato il mare dell’Ovest, si stabilì a Edo, per insegnare in Giappone la calligrafia e la pittura. Si chiamava Chen Yuan Pin e viveva solo e ritirato in un monastero. Era discreto come un gatto, tranquillo come la superficie di un lago, sembrava fragile come una lampada di giada.

I poemi nascevano dalle sue labbra come fiori di loto; il pennello danzava tra le sue dita agili, creando armonia. Molto presto venne apprezzato dallo Shogun, che lo prese al suo servizio per educare i giovani. Negava la sua presenza a palazzo, perché preferiva il silenzio del suo eremo alla vita tumultuosa della corte. Spesso l’anziano incrociava gli sguardi pieni di disprezzo dei rudi samurai, che lo accusavano di debilitare lo spirito dei giovani nobili. “Non si vince una battaglia con il pennello in mano! Neanche recitando poemi, con la testa piena di filosofia!”. Dicevano.

Discreto come un gatto, tranquillo come la superficie di un lago, fragile come una lampada di giada, Chen continuava, imperturbabile, il suo cammino con l’immancabile sorriso. Una notte, il vecchio stava tornando nel suo eremo, accompagnato dalla scorta di tre samurai, che dopo molte insistenze dello Shogun, aveva accettato al suo seguito.

Fuori dalla città, il sentiero si immergeva in un bosco molto fitto. All’improvviso giunsero dei banditi, che circondarono Chen e la sua scorta. La banda di malfattori si lanciò selvaggiamente all’attacco; i samurai presto furono disarmati e una minaccia mortale fu portata all’anziano. In maniera tanto repentina quanto inattesa, Chen passò all’attacco. Rapido come la folgore, flessibile come un giunco, inarrestabile come il vento, le sue mani, i suoi piedi e i suoi gomiti, si trasformarono in armi terribili. Quattro banditi caddero pesantemente al suolo fuori combattimento; gli altri si dettero alla fuga e corsero senza fermarsi, come se avessero incontrato un essere soprannaturale.

I samurai chiesero al monaco il segreto della sua terribile forza. Ma l’anziano li guardò in silenzio e continuò il cammino verso il suo ritiro, discreto come un gatto, tranquillo come la superficie del lago, fragile come una lampada di giada. I samurai vegliarono alla sua porta fino all’alba e lo supplicarono di prenderli come discepoli. “La mia arte è per anime ben temprate; le strade della conoscenza sono lunghe e pericolose”, disse il bonzo. “Siamo pronti a tutto”, risposero i guerrieri.

Furono accettati come discepoli e vissero per lunghi anni imparando quella terribile e paradossale Arte della Guerra. Al di là dell’apprendimento comune, ognuno si specializzò in una delle armi del Wu-Chu. Uno perfezionò la scienza delle proiezioni; l’altro le leve e gli strangolamenti ed il terzo i colpi ai punti vitali. Quando integrarono l’arte di Chen, arrivò l’ora di lasciare il maestro; dovevano trasmettere quello che avevano imparato. Il giorno della partenza, Chen dette loro le ultime raccomandazioni e ricordò che dovevano educare solo le persone che erano disposte a seguire la via del cuore. Il maestro conferì loro la sua benedizione e si ritirò nel tempio, discreto come un gatto, tranquillo come la superficie di un lago, fragile come una lampada di giada e con il volto illuminato da un dolce sorriso.(Tratto da il commentario a “L’arte della guerra” di Sun Tsu – J.M. Sanchez Barrio)


 

RACCONTO 4

Mutekatsu Ryu La scherma senza mani

Tsukahara Bokuden (1490-1571) studiò il kenjutsu con il padre, un sacerdote scintoista del santuario di Kashima, e con molti dei più famosi monaci combattenti che risiedevano nell’area dei santuari di Katori e Kashima. L’abilità di Bokuden crebbe ad altezze prodigiose, e come spadaccino sarebbe rimasto imbattuto per trentanove combattimenti. Ma bokuden proseguì la propria meditazione interiore, e negli anni sviluppò ciò che egli denominò mutekatsu ryu, una specie di scherma nella quale le mani non sono necessarie. Il rinomato aneddoto che segue rivela la natura di tale evoluzione.

Un giorno, mentre Bokuden stava attraversando il lago Biwa su una piccola barca stipata di passeggeri, uno schermidore si gloriava della propria incomparabile destrezza con la spada. I suoi toni fragorosi attirarono l’attenzione di tutti i passeggeri e del rematore. Solo Bokuden, apparentemente addormentato, lo ignorava. Il millantatore, infastidito dal fatto che non tutti i presenti erano interessati al racconto della propria maestria, sveglio Bokuden bruscamente e gli chiese provocatoriamente quale ryu o scuola di kenjutsu seguisse. Bokuden rispose: “Il Mutekatsu ryu”.

“E che cos’è?”, chiese lo spadaccino. Allora Bokuden spiegò che questo stile dell’arte della spada era la forma più elevata possibile di abilità nella spada, giacché non richiedeva l’uso delle mani. La risposta di Bokuden irritò lo spadaccino che gridò: “Intendi dire che saresti in grado di battermi senza usare le mani?”. Bokuden annuì sommessamente.

“Ma allora perché porti con te due spade?”, chiese lo schermidore vanaglorioso sempre più adirato.

“Utilizzo le mie spade solo per sconfiggere i miei desideri egoistici”, rispose Bokuden. Lo schermidore, ormai fuori di sé, ordinò al rematore di tornare immediatamente a terra, perché intendeva sfidare Bokuden per risolvere la questione. Ma questi espresse la propria preoccupazione per le vite delle persone che avrebbero potuto imbattersi nel combattimento, e suggerì piuttosto che andassero su una piccola isola nelle vicinanze. Lo schermidore assentì. Non appena la barca approdò sull’isola, l’impaziente schermidore saltò a riva, si tolse il mantello e si accinse al combattimento. Bokuden si alzò lentamente dal proprio posto, si tolse la giacca e sembrò in procinto di seguire a riva il suo sfidante. Ma con grande sorpresa di tutti, soprattutto dello schermidore vanaglorioso, Bokuden raccolse rapidamente un remo e spinse la barca in acqua. Sconcertato lo schermidore urlò tutta la sua rabbia, ma Bokuden proclamò, con una voce calma, ma ben udibile: “Ecco come il mutekatsu ryu sconfigge il nemico”. (Tratto da “Il Budo classico” Vol 2 Donn F. Draeger ediz. Mediterranee)


 

RACCONTO 5

Yagoro

Quando il giovane ronin (samurai senza padrone) Yagoro partì per il musha-shugyo, il viaggio di perfezionamento della via della katana, il primo luogo che visitò era il famoso tempio di Hachiman il dio protettore delle arti marziali. Lì si allenò senza sosta nella speranza di ottenere l’Illuminazione, che in effetti ottenne, anche se non nella maniera mistica che forse sperava. Durante la sera dell’ultimo giorno Yagoro percepì come un “sentore” di morte, e, senza pensare, colpì all’improvviso un bandito che gli si stava avvicinando alle spalle, uccidendolo sul colpo. L’istinto fu, dunque, il suo primo maestro, da cui trasse una profonda lezione: ogni attacco è contemporaneamente una difesa, e viceversa. Ma aveva bisogno di un vero Sensei(Maestro) che formalizzasse il suo metodo di addestramento, fino ad allora completamente autodidatta, e affinasse la sua tecnica.

Il giovane ronin trovò quello che cercava a Edo, in Jisai Kanemaki, che lo accolse subito; tuttavia, dopo appena cinque anni di apprendimento, Yagoro affrontò il maestro con la sua decisione di lasciare la scuola, poiché riteneva di aver appreso tutto quanto gli poteva dare. Kanemaki Sensei naturalmente lo rimproverò per la sua arroganza e decise di dargli una severa lezione, sfidandolo con il bokuto (una riproduzione in legno della spada) ma con sua estrema sorpresa venne battuto per ben tre volte dal suo giovanissimo allievo. Incredulo , il Maestro desiderava sapere quale fosse il suo segreto, e Yagoro gli disse: “Quando tu, Maestro, cerchi di colpirmi, io lo vedo nella mia mente, e quindi rispondo soltanto con naturalezza, come se mettessi la mano sulla testa per grattarla. Questa tecnica è nata nella mia mente e non mi è stata insegnata da te”. Jisai kanemaki capì, e lo iniziò allora ai segreti della sua scuola che ancora oggi sono tramandati, come kata avanzati dell’Ono-ha Itto-ryu. Appresi i segreti del Maestro Jisai, Yagoro partì nuovamente per continuare il suo musha-shugyo. Era un periodo confuso e pieno di battaglie, dato che la potenza dello shogunato Ashikaga era quasi nulla, e dunque Yagoro sfruttò la situazione per addestrarsi alle arti marziali sia dal punto di vista mentale sia tecnico, ed entrava di buon grado e con impeto in molte occasioni di combattimento, per migliorarsi rischiando la vita. Egli tuttavia, cresciuto senza educazione da un gruppo di pescatori e contadini, era rozzo e sgarbato, molto superbo e sfrontato, nella vita di tutti i giorni,anche e soprattutto a causa della sua grande abilità nella spada. Ma, durante il suo vagabondare accadde un episodio che cambiò profondamente il suo approccio alla vita: in una locanda a Kyoto, dopo aver trattato con sprezzante alterigia un gruppo di avventori, si ritirò nella propria stanza con una donna e abbondante sake. All’improvviso, però, avvertì una strana sensazione di pericolo e si accorse che gli avventori di prima gli avevano teso un agguato con la complicità della “signorina. Riuscì in ogni caso ad ucciderli, benché con estrema difficoltà e con una buona dose di fortuna. Comprese quindi che era stato l’alcol, l’eccessiva fiducia nella donna, e soprattutto il suo comportamento e le sue parole, a causare quell’incidente e quelle morti inutili: questo lo fece profondamente riflettere.

Durante le sue peregrinazioni si sdraiava nei campi e dormiva in montagna e, in occasione dei duelli con altri ronin, lasciava a loro la scelta tra un combattimento con la spada vera o quella di legno, riuscendo sempre ad intuire le abilità dell’avversario. Vinse tutti gli scontri, senza perderne nemmeno uno. Tuttavia con generosità quasi sempre perdonava il perdente e non uccideva mai inutilmente, oltre ad accettare sempre gli allievi che gli chiedevano insegnamento, divertendosi con loro e trattandoli sempre con grande gentilezza.

Il suo atteggiamento era cambiato profondamente, e divenne un uomo silenzioso, cortese e riflessivo.

Cambiò quindi il suo nome da Yagoro a Ito Yagoro e continuò i suoi viaggi e le vittorie in tutti i duelli contro gli avversari più forti. Migliorando le proprie tecniche con la continua applicazione e con lo studio delle altre scuole diventava sempre più sicuro di sé, ma decise che era il momento di arricchire la mente. Non sentiva ancora di avere una vera stabilità spirituale, così un giorno d’inverno entrò in un tempio buddhista e si inginocchiò tenendo un tetsunyoi (attrezzo metallico lungo circa 30 centimetri che i monaci buddhisti usano durante la lettura dei sutra) per ritrovare la pace. Provò a meditare, ma all’inizio non riusciva a concentrarsi per i continui pensieri che andavano e venivano. Capì che dipendeva ancora dalla realtà del mondo terreno e si mise a digiuno per migliorare la sua concentrazione. Qualche giorno dopo, senza accorgersene, si ritrovò nella pace e tranquillità più assoluta e totale e gli sembrò che il tetsunyoi divenisse caldo come se fosse arroventato dal fuoco. In un attimo ritornò allo stato normale e il tetsunyoi insieme ritornò freddo come il ghiaccio.

Rimase impressionato da questa esperienza particolarmente mistica, e cercò di capirne il senso, ma infine si rese conto che il cambiamento termico del tetsunyoi aveva avuto origine dal suo Ki (forza spirituale): l’aumentare e il decrescere del Ki penetrava nel tetsunyoi e al ritorno gli faceva sentire la sensazione di caldo o di freddo. Qualche anno dopo riuscì a far scorrere consciamente il Ki , come e quando voleva, nel tetsunyoi che aveva in mano. Da questa esperienza spirituale comprese che la mente poteva passare al corpo e che il corpo poteva passare alla spada il Ki nello stesso modo e che quindi si poteva ottenere l’unione di mente, corpo e spada. (Tratto da “Daito-Ryu Aikibudo storia e tecnica” M°Antonino Certa - Luni Editrice) 

 

 

 

2006 © Tutti i diritti riservati - ALBERTO OLIVERO  -  Aggiornato il 10/08/2010